Corinaldo, sette anni fa la strage in discoteca, persero la vita 6 persone: “Mia moglie è morta proteggendo nostra figlia”.
Una notizia che ha fatto subito gelare il sangue a chiunque l’avesse ascoltata. Una tragedia che non doveva verificarsi. Una notte che l’Italia non ha dimenticato. La discoteca di Corinaldo è stata scenario di paura, orrore e cinque adolescenti e una giovane mamma hanno perso la vita.
Una serata che doveva essere all’insegna del divertimento e della spensieratezza è finita in tragedia. Le urla, la fuga e la balaustra che crolla. Da quel giorno si ricordano le vittime e si cerca giustizia per quanto accaduto.
Quella notte, tra il 7 e l’8 dicembre del 2018, era iniziata come tante altre. L’attesa per l’artista, l’energia dei ragazzi, il desiderio di vivere un momento che sembrava semplicemente speciale. Nessuno immaginava che in pochi istanti il divertimento si sarebbe trasformato in un inferno di urla, spinta, paura e disperazione.
Quando qualcuno diffuse spray urticante, una modalità tipica di una baby gang che è stata indicata come responsabile, è stato l’inizio della fine. Il bruciore negli occhi, il respiro che mancava, il bisogno irrefrenabile di uscire. Da quel momento ogni ragazzo ha vissuto pochi secondi che sembravano non finire mai. La corsa verso l’uscita indicata come sicura portò centinaia di persone in un imbuto dove la pressione dei corpi aumentava a dismisura. In quel punto, la balaustra cedette. E il destino di sei persone si decise in un attimo.
Tra loro c’era Eleonora Girolimini, 39 anni. Aveva accompagnato la figlia, come ogni madre che sa che certe serate sono più tranquille se c’è qualcuno che veglia vicino. Paolo Curi, suo marito, ha ricordato più volte quei momenti con una lucidità che ferisce e allo stesso tempo illumina. Ha raccontato che Eleonora era lì solo per proteggere la loro bambina, che in mezzo al caos l’unico pensiero che aveva era tenerla stretta, farle scudo con il proprio corpo.
Paolo ha ripercorso più volte quel percorso che l’ha portato a realizzare che la sua vita, da quella notte, aveva preso una direzione completamente diversa. Ha parlato della fatica di alzarsi ogni mattina, del modo in cui il dolore ti resta addosso, della necessità di trovare un appiglio quando sembra che non esista più nulla.
Ha confessato che nei giorni successivi non riusciva a vedere un cammino possibile, e che solo guardando i figli ha sentito di dover trovare un modo per non perdersi dentro la sofferenza. Da quel momento ha iniziato un percorso fatto di forza, di fragilità e di memoria.
Lo ha definito un viaggio difficile, segnato da un processo lungo e da un bisogno irrefrenabile di verità. Paolo ha più volte chiarito che non cerca ostilità verso nessuno, che ciò che chiede è responsabilità, perché ogni persona coinvolta nella sicurezza del locale aveva un ruolo preciso. Quella notte ha aperto ferite che ancora oggi chiedono risposte e il suo racconto è diventato una delle voci più forti e più ascoltate tra quelle dei familiari.
La vicenda è diventata il simbolo di ciò che può accadere quando il divertimento non è protetto da regole adeguate e controlli corretti. La mancanza di una struttura sicura, l’impreparazione, il sovraffollamento e una gestione disattenta hanno creato un effetto domino che non ha lasciato scampo. Nel tempo si sono intrecciati i racconti delle famiglie, i passaggi dei tribunali e il bisogno collettivo di non lasciare che quella notte resti solo dolore.
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