Arriva dal Quirinale la decisione che porta malumore tra le forze armate: vietato il “Sì” dopo “L’Italia chiamò” nell’Inno nazionale.
L’inno che si canta con orgoglio, decantato come tra i più belli del mondo, oggi vede una notizia che lascia perplessi in molti. Alla sua fine, per decenni è stato riempito da una sola parola gridata con forza e appartenenza. Ora, quell’istante è destinato a restare vuoto.

La decisione arriva da molto in alto e sta facendo rumore proprio perché impone “il silenzio”. Nelle cerimonie militari ufficiali, le forze armate italiane non dovranno più pronunciare il celebre “Sì!” che chiude il Canto degli Italiani. Una scelta che non riguarda solo una sillaba, ma tocca simboli, memoria e identità collettiva.
Una scelta che divide: non si potrà più pronunciare il “Sì” a fine Inno
La direttiva nasce da un decreto presidenziale firmato nei mesi scorsi e resa operativa con una comunicazione interna dello Stato Maggiore della Difesa. Il messaggio è chiaro e non ammette interpretazioni: quando l’inno viene eseguito nella versione cantata, l’esclamazione finale deve essere omessa. L’ordine è stato trasmesso a tutti i corpi, dall’Esercito alla Guardia di Finanza, con l’indicazione di garantirne l’applicazione in ogni contesto ufficiale.

Nelle caserme, la notizia ha iniziato a circolare rapidamente, accompagnata da perplessità e malumori. Non tanto per l’obbligo in sé, quanto per il significato che quella parola ha assunto nel tempo. Quel “Sì!” è diventato, negli anni, molto più di un’aggiunta musicale: è stato vissuto come un giuramento, una promessa collettiva, un segno di unità pronunciato all’unisono.
Dal Quirinale, la spiegazione è di natura filologica e musicale. L’obiettivo dichiarato sarebbe quello di riallineare l’esecuzione ufficiale dell’inno alla sua forma originaria, così come concepita da Goffredo Mameli nel testo poetico del 1847. Nel manoscritto conservato al Museo del Risorgimento di Torino, infatti, quell’esclamazione non compare.
La questione che fa sorgere dubbi
Lo spartito musicale originale composto da Michele Novaro, utilizzato storicamente e pubblicato anche sui canali istituzionali, riporta chiaramente il “Sì” finale. Non si tratta di un’aggiunta casuale, ma di una scelta precisa, pensata per accompagnare il crescendo musicale e trasformare l’ultima nota in un atto solenne.
Lo stesso Novaro spiegò che quell’urlo rappresentava un giuramento, un grido di battaglia, l’apice emotivo dell’inno. Arrivò persino a scusarsi con Mameli per l’inserimento, consapevole di aver modificato il testo poetico, ma convinto che la musica avesse bisogno di quell’ultimo slancio per esprimere fino in fondo il suo significato.
Il Canto degli Italiani nasce a Genova nel 1847. E’ stato necessario attendere il 2017 perché una legge ne sancisse definitivamente lo status di inno nazionale della Repubblica Italiana. Nel frattempo, però, l’inno aveva già trovato casa nell’immaginario collettivo. E’ risuonato negli stadi, nelle piazze, nelle cerimonie pubbliche, sempre accompagnato da quell’ultima parola pronunciata con forza.
La versione presa oggi come riferimento dalle istituzioni è quella eseguita nel 1961 dal tenore Mario Del Monaco, in cui dopo i versi “siam pronti alla morte, l’Italia chiamò” segue solo la musica. Una scelta che per molti appare distante dalla pratica consolidata e dall’esperienza condivisa da generazioni di italiani.
Alla fine tutto si riduce non soltanto nello stabilire quale sia la versione “corretta”, ma di comprendere quanto una tradizione, ripetuta per oltre un secolo, possa trasformarsi in patrimonio emotivo condiviso. Togliere una parola può sembrare un gesto minimo, ma quando quella parola è diventata un simbolo, forse dovrebbe restare lì dov’è.





