Quando utilizzi WhatsApp dovrai fare molta attenzione quando invii una emoji in particolare. Arriva la denuncia: il conto da pagare è salato.
WhatsApp nel corso degli ultimi quindici anni ha certamente rivoluzionato il modo in cui ci teniamo in contatto con gli altri. Infatti se prima era possibile mandare solamente gli SMS, che avevano un costo di 15 centesimi l’uno, adesso grazie agli smartphone e all’applicazione sarà possibile parlare con chiunque al costo totalmente gratuito. Ovviamente poi non mancano le funzioni aggiuntive, con l’app che permette anche di videochiamare e soprattutto di fare chiamate di gruppo.
Nel corso degli anni WhatsApp è riuscito a distaccarsi sempre di più dal concetto di semplice applicazione di messaggistica. Adesso dobbiamo addirittura fare attenzione anche a ciò che scriviamo sull’applicazione. Infatti sembra proprio che le chat di WhatsApp possano avere degli effetti legali. Nel dettaglio bisogna fare molta attenzione quando si invia un emoji in particolare. A deciderlo è la sentenza di una Corte di Cassazione. Tutti gli utenti che la utilizzano potrebbero pagare un conto salatissimo.
WhatsApp, nelle ultime ore, è entrato a far parte di una vicenda legale che ha coinvolto un agricoltore della Saskatchewan. A finire nell’occhio del ciclone è un contratto di fornitura di lino, che ha sollevato interessanti questioni giuridiche riguardanti l’uso delle emoji come forma di conferma contrattuale. Il caso ha suscitato un dibattito su scala nazionale ed è diventato emblematico della crescente importanza delle comunicazioni digitali nel mondo legale.
L’agricoltore Chris Achter di Swift Current è stato chiamato in causa da South West Terminal (SWT) per non aver onorato un contratto di fornitura di lino. La controversia è iniziata quando Kent Mickleborough, rappresentante di marketing agricolo della SWT, ha contattato Achter per confermare un contratto che richiedeva la consegna di oltre 85 tonnellate di lino ad un prezzo di circa $670 per tonnellata. La conferma è stata ottenuta da Achter tramite un emoji pollice in su, scambiato tramite messaggi di testo.
Il nodo della questione sta proprio nel modo in cui l’emoji è stata interpretata: se come conferma del contratto stesso o solo come ricevimento del messaggio. Questo ha portato a una disputa legale che ha richiamato l’attenzione della comunità legale e dei media. La sentenza del giudice di King’s Bench, Timothy Keene, a favore della SWT, ha riconosciuto l’emoji pollice in su come un modo valido per “firmare” un documento in circostanze specifiche. Ovviamente Achter ha presentato appello contro tale decisione sostenendo che un emoji non può valere come firma.
Il caso ha portato alla ribalta anche una serie di questioni legali important. Tra queste troviamo la definizione di firma e la sua validità in contesti digitali. Inoltre ha anche sollevato l’importante questione della chiarezza nelle comunicazioni digitali. Questo è un tema fondamentale quando si tratta di transazioni commerciali e contrattuali. Insomma quando si discute di denaro, meglio evitare l’emoji col pollice in su.
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